Jaaaaaaaaazzz, babe..

ahe-m, mi schiarisco la voce. sempre, quando devo parlare preferisco schiarirmi la voce. perché si senta più forte e chiaro quello che ho da dire.
e anche perché spero che suoni meglio.
a-hem. mmh. dunque.
parto da lontano.
sono tanti anni che sono su piazza. sembrerà trito, ma sono davvero tanti anni. sai, in tutti questi anni ne ho vissute di storie. ne ho viste, e tanti me (tanti me stesso) ho visto. ho visto la solitudine, ho visto l’allegria, ho visto la passione. e tanto altro ho visto.
sai una cosa, mentre suona un caldissimo jazz sotto i miei tasti, ecco tanti tasti ho pigiato. tanti. per scrivere tante parole.
questa volta, come sempre, è diverso. è meraviglioso. cioè, non è meraviglioso questa volta. è meraviglioso come si possa scrivere. mi stupisco ogni volta. è meraviglioso come si possa esprimere sentimenti, pensieri, parola dopo parola, lettera dopo lettera. viaggiando su una tastiera. sempre la stessa, in fondo.
ecco, sono parole jazz. questa sera.
sai com’è il jazz. è fantastico. racconta storie pesanti, pesantissime. ma lo fa in maniera lieve. il jazz è lieve. eppure ha dentro tanto sangue.
già, il sangue. è il primo argomento che mi viene in mente, in questa sera jazz.
tu l’avrai capito, io sono il mio sangue. non del tutto, ma in buona parte. sono sangue.
sai com’è il sangue. gira, gira, gira, e non si ferma mai. svolta per le vene, evita i grumi, passa sopra a tutti i nodi. va, va, va, se ne va. non puoi inseguirlo, perché lui non si ferma mai. io vado, dietro al mio sangue.
quando ne sento il richiamo, quando lo sento, se lo sento, non mi fermo per niente al mondo. lo seguo. gioco con lui. ci schizziamo come due bimbi per la prima volta al mare. è la mia gioia e il mio tormento. ma c’è. io lo so.
lui c’è. è una delle poche cose che so. come io ci sono. io vado, vado, vado. troppo spesso oltre, l’ho imparato. spesso oltre. oltre il confine tra il lecito e l’illecito. e non sta in un paio di parole. è in ogni ruga sulla mia faccia. è lì. per fortuna si mostra, e me lo ricorda. ma io vado. io vado finché il mio sangue gira. perché è raro.
è raro il mio sangue, è raro che succeda di andare. bisogna volerlo. e io lo voglio. e non ci rinuncerei mai. ho tanto sudato per poter andare. adesso vado. non ci rinuncerei.
neanche per la ciccia. neanche per la carne. ecco, è arrivata anche la carne. al solito. le solite straripetute parole. la carne è una delle tante.
eppure la carne porta con sé l’odore. guarda, c’è più odore nella parola carne che in tutto un macello. io dico che l’odore va distillato e messo in tante boccette per poterlo far distinguere a quelli che non lo sentono. e per poterlo ricordare. l’odore di me, l’odore della prima volta, l’odore della prima sigaretta, l’odore di dopo la pioggia, l’odore dei quattromila metri, l’odore del freddo, l’odore del mare, l’odore del silenzio, l’odore della polvere, l’odore.. dio, quanti ce n’è.
sa di polvere questo jazz. sa di polvere perché è polvere, e come la polvere basta un soffio per farlo volare. basta un soffio in più, in quella maledetta malinconica tromba, per farlo suonare.
ma è un sogno. tutto questo è un sogno. tutto è solo un sogno.
poi arriva la mattina, arriva il sole, arrivano le auto, arrivano le vecchine con la sporta della spesa, arriva la raccomandata, arriva il mondo. ti si scaraventa addosso con la sua violenza infinita e invereconda.
e io mi nascondo. continuo a pigiare i miei tasti cercando di respirare. di sopravvivere fino a una nuova notte. fino al nuovo sogno.
ma lo so, sono tanti anni che sogno. lo so che non c’è modo di evitare il mondo. lo so che non c’è modo per far continuare il sogno. so cos’è il giorno, so cos’è la fine della musica. so che tutto appare più stinto. gli odori svaniscono, il sangue rallenta, la carne si rammollisce. lo so. lo aspetto ogni mattina. e lo riconosco. un po’ mi fa ridere, perché ho voglia di sfidarlo, il giorno si capisce. ogni tanto ci riesco. riesco a sorridere in faccia al mondo. riesco a farmi divertire dal giorno. riesco a fare del giorno un aperitivo della notte. ogni tanto no. ogni tanto è lui, il giorno, ogni tanto il giorno che mi ride in faccia. ride di me, della mia faccia pesta, della mia carne molle, del mio sangue rappreso.
una cosa ho imparato. ho imparato una cosa, dopo tante e tante notti e dopo altrettante mattine. ho imparato che solo io, il mio sangue, la mia carne e i miei odori possiamo avere memoria di noi stessi. per questo, alla fine, si è sempre soli. solo io posso raccontare a me stesso la poesia della mia vita, l’unica poesia che valga la pena di scrivere. certo, bisogna che suoni jazz. o rock, o funky, o blues. ma bisogna che suoni. e danzi, e canti. se suona ha memoria, se non suona svanisce fra i gas di scarico.
ora, mentre io scrivo queste righe di jazz, tu stai spegnendo la musica. stai spegnendo la tua musica. stai uscendo dalla notte di sogno, stai guardando il sole e le sue nuvole di polvere. forse hai finito di danzare, forse sei stanca e hai bisogno di respirare un poco. forse il tuo sangue si è fermato per un istante e, improvvisamente, il tuo cuore ha smesso di battere.
io non lo so. quello che so è che il giorno è sempre più scuro della notte.
e ogni giorno ha bisogno di un abbraccio. per arrivare fino alla prossima notte.
è meraviglioso poterlo scrivere. è meraviglioso poter passare il giorno in un abbraccio. è meraviglioso vivere il sogno di una notte. anche di una notte sola. e far crescere una ruga in più.
ravveduta e corretta. spero che il tuo giorno sia felice. vittima di un abbraccio. almeno quanto lo è la mia notte.
a-hem. buonanotte, vecchiaia.

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